LA RONDINE DI KABUL: la storia di Mahdi Rezayi
Miano, 18 Novembre 2020 - "Le Rondini di Kabul'' è il titolo di un bellissimo libro di Yasmina Khadra riguardante l'integralismo in Afghanistan, la sua follia e il suo impatto nella vita delle persone. Le rondini sono le donne con il Burka integrale - quello con la rete a coprire gli occhi e la stoffa a nascondere identità, fattezze e biografie delle donne afghane. Le rondini del libro costituiscono l'ambiente, la cornice all'interno della quale si intrecciano quattro storie di ordinaria vita e morte in Afghanistan. Nel romanzo vi è una scena riguardante l'esecuzione di queste donne/rondini accusate di aver irrimediabilmente peccato: la scena si sviluppa all'interno dello stadio nazionale di Kabul. Il calcio in Afghanistan è lo specchio fedele della storia di una terra che respira la propria memoria attraverso la polvere. Praticare lo sport a queste latitudini è un continuo atto di fede, ridefinizione personale e astrazione dal ciò che di più duro ha da offrire il quotidiano.
Conosciamo tutti la storia contemporanea dell’Afghanistan.
Dopo la Guerra del Golfo e i Balcani,e la Somalia, la questione afghana è stata a lungo oggetto di una forte documentazione e rappresentazione mediatica “dal vivo”, che ha portato nel mondo le tragedie di una terra che ama la pace ma che si ritrovata a vivere nella polvere. Sovietici prima, inglesi, americani e le coalizioni dell’occidente poi, passando per i Taliban, Al Qaeda, Pakistan: per 30 anni il mondo è piovuto su Kabul, Herat, Kandahar e dintorni portando morte, divisione e tanta miseria. Si può vivere in pace quando tutto crolla? Ci si può abituare ai limiti, alla distruzione e l’incertezza del sopravvivere quotidiano, facendo di tutto questo una coraggiosa ricerca di normalità?
Lascio la parola a Mahdi Rezayi, giovane nazionale afgano che ha scelto di raccontarsi nel progetto Calci: Comunità Resilienti con il fine di regalarci un’intima fotografia di come il calcio sia in Afghanistan un qualcosa oltre lo sport, una questione strettamente connessa con la vita, la morte e il futuro di un popolo. Lui è la nuova rondine di Kabul, l'atleta che ha deciso di volare oltre tutto:“Sono nato in Iran, e lì ho vissuto la mia infanzia all’interno della diaspora. Fin da piccolo il calcio ha rappresentato per me e gli altri bambini l’unico sport praticato e nutrivo un grande interesse per questo sport. Ogni giorno - proprio quando gli adulti riposavano a mezzogiorno – scappavo fuori di casa per cercare gli amici per giocare a calcio in strada. Quando mio padre mi disse che ero abbastanza grande per iniziare la scuola, ho pensato che fosse una cosa meravigliosa perché sicuramente lì avrei giocato più facilmente a calcio. Nelle zone abitate da profughi e migranti afgani, il calcio rappresentava l’unica pratica collettiva praticata nel tempo libero. Mio padre e i miei zii mi portavano sempre a vedere le partite dei grandi anche se non sempre era facile e sicuro assistere a questi eventi. A 11 anni, io e la mia famiglia siamo tornati nel nostro paese. In giro c’erano solo problemi e anche la mia famiglia non se la passava bene: a lungo mio padre è stato senza lavoro e ci sono stati dei momenti in cui abbiamo avuto una vita davvero difficile.
Sono andato a scuola e nel tragitto tra la casa e l’edificio scolastico, ho visto piccole squadre che si allenavano in terreni polverosi al termine delle lezioni. Più li vedevo, più sognavo di potermi allenare con loro, ma non avevo soldi per pagare un’iscrizione e comprarmi quel poco che mi serviva per giocare. Avevo solo un paio di pantaloncini ma mi mancavano le scarpe, la maglia e le calze. Alla fine, presi coraggio e andai ad allenarmi in una di quelle squadre, con le scarpe non adatte al calcio - le uniche che avevo. Non era semplice giocare a calcio, non per me che, pur di allenarmi, avrei dovuto accettare di rincasare di notte, in un orario per niente sicuro. Stavamo sperimentando giorni davvero bui. Un giorno i terroristi hanno attaccato una palestra piena zeppa di atleti che praticavano la lotta libera (uno degli sport nazionali ndr).
La palestra era dietro al campo dove si stava allenando mio fratello di 10 anni. La palestra venne rasa al suolo e molti atleti morirono nell’attacco. Per i terroristi, la loro colpa era praticare uno sport che li teneva lontani da Dio, mentre invece questi atleti , così come me, sognavano di rappresentare e rendere onore al paese e alla nostra gente. Quel giorno fu uno dei momenti in cui la mia famiglia sperimentò da vicino il terrore e la paura di morire.
Passavano i giorni e aumentavano le cronache di morte sulle radio e le Tv. Chiunque tra noi aveva un amico, un parente o un conoscente caduto in un attacco terroristico. Nel mio caso, persi un amico in un attacco diretto a una scuola. Ricordo bene quel giorno perché un altro mio amico mi avvisò di quel che stava succedendo qui a Kabul e subito provammo a raggiungere per telefono il nostro amico.
Il telefono non squillò.
In tutto questo, volevo giocare a calcio e un giorno, mentre tornavo da scuola, vidi i miei amici prendere parte a una partita contro una piccola squadra locale.
Una vera squadra.
Mi invitarono a giocare con loro e - senza pensarci due volte - scesi in campo. Dopo la partita, l'allenatore della squadra mi chiese di entrare a far parte della rosa. La sua squadra si allenava tre volte a settimana ed era relativamente una buona squadra. Decisi di provarci. Dopo qualche tempo, questa squadra fu invitata a partecipare ai campionati provinciali under 12. Da quei tornei venivano selezionati i primi under per la nazionale afgana. Fui selezionato per la squadra e andai in Iran con la nazionale di età inferiore ai 13 anni. Tornavo da calciatore nel paese che mi ha dato i natali, rappresentando per la prima volta la mia terra e il mio popolo. L' anno successivo andai di nuovo in Iran con la under 14: da quel momento in poi non ho più smesso di indossare la maglia della nazionale afgana”.
Ringrazio Mahdi per la testimonianza e per il rapporto di amicizia che abbiamo portato avanti a distanza in questi mesi di incertezza globale.
"La promessa è quella di vederci dal vivo un giorno tra le strade di Kabul per andare a vedere quei campi da calcio persi nella polvere dove nascono le storie di speranza come la sua''.
di Francesco Zema.
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